lunedì 12 agosto 2013

Chi si ricorda di Tel al-Zaatar?




Titolo originale:
ERA LA MATTINA DEL 12 AGOSTO 1976
di Francesco Castelnuovo
2013


Oggi è il 37esimo anniversario della strage di Tel al-Zaatar, una delle stragi di palestinesi più barbare degli ultimi 40 anni, compiuta durante la guerra del Libano, in un campo di rifugiati palestinesi, da parte dei falangisti libanesi filo-siriani con l'appoggio del dittatore siriano Hafez El-Assad (nella foto insieme a Yasser Arafat, in una delle varie immagini della fine degli anni 70 che li ritraggono insieme, guarda un po'...). 
Una strage particolarmente efferata non solo per il numero delle vittime (tra 2000 e 3000 a seconda delle stime), ma perché avvenne dopo che le milizie guidate dal generale Michel Aoun avevano portato allo stremo e alla fame gli occupanti del campo con un assedio durato oltre 6 mesi! La strage di Tel al-Zaatar non viene ricordata quasi mai. Non è come per la strage di Sabra e Shatila, che fu compiuta anch'essa da falangisti libanesi, ma con gli israeliani che avevano chiuso un occhio.

Per la strage di Sabra e Shatila ci sono state in 30 anni:

- reportages di testate internazionali,
- manifestazioni di piazza in mezza Europa (e in Israele)
- commissioni d'inchiesta,
- proteste della Lega Araba,
- richieste di condanna per Ariel Sharon,
- discorsi di fine d'anno di Presidenti della Repubblica Italiana (v. discorso di fine anno di Sandro Pertini il 31 dic 1982),
- canzoni di Eugenio Finardi,
- canzoni dei Nomadi,
- ...e tante altre grida di scandalo che adesso nemmeno ricordo.

Per la strage di Tel al-Zaatar invece no! Tel al-Zaatar non se la ricorda nessuno! Eppure le sue dimensioni in termini di durata e di numero di vittime è pari se non superiore a quelle di Sabra e Shatila. Come mai? È semplice. Non c'erano di mezzo gli israeliani. È come per le tante e tante stragi di palestinesi compiute dai loro "fratelli" arabi. A partire dalla più grande di tutte, quella compiuta nel settembre 1970 (il Settembre nero) da Re Hussein di Giordania (che, chissà come mai, nel suo discorso di veemente protesta per Sabra e Shatila, Sandro Pertini citò come esempio da seguire!). 

E così, tutte le volte che i palestinesi sono stati (o sono tuttora, v. in Siria) uccisi dagli arabi, i cosiddetti "difensori dei diritti umani", "pacifisti" o "filo-palestinesi" che dir si voglia, hanno altro da fare. Fanno come diceva Craxi: vanno al mare. Come quel 12 agosto...




Ada Ascarelli Sereni: storia di una sionista italiana




Ancora negli ultimi mesi della sua vita, quando la incontrai vestita di seta blu a piccoli fiori bianchi nell'albergo per anziani “Nof yerushalaim” fra i mobili italiani con cui aveva sistemato le sue due stanze, Ada Sereni spirava energia e grazia; era dura nei giudizi e dolce nei modi, accurata nel parlare e non dimentica di un aristocratico lieve accento romanesco.

Si sarebbe spenta a 92 anni, nel novembre del 1998; era giunta in Israele nel 1927. La sua è la vicenda di un'eroina prima nascosta e silente all'ombra di Enzo Sereni, suo marito, e poi, dopo la sua tragica morte, di una leader intrepida e avventurosa, un'autentica salvatrice di decine di migliaia di vite e di anime scampate alla Shoah e dirette verso la loro risurrezione in Israele.

Ada Sereni nacque Ascarelli, a Roma, il 20 giugno 1905: la sua era una famiglia ebraica raffinata, colta e benestante. Alla piccola Ada si raccontava del nonno Ariel, che, fornitore di lana del Papa, non aveva mai dovuto sottostare alle restrizioni che serravano gli ebrei di Roma nel ghetto.
Ariel aveva persino una proprietà in via Giulia. La tradizione ebraica era forte anche se laica, il padre di Ada leggeva la Bibbia ai suoi figli e la teneva sempre vicino al suo letto; una volta si era spinto a visitare Gerusalemme arrampicandosi per la strada da Jaffa alla tanto sognata culla degli Ebrei, ma lo stato della città, che anche Stendhal o Mark Twain hanno descritto come rovinoso, lo convinse a non ritentare dal viaggio mai più.

Ada incontrò a scuola il suo grande amore, Enzo Sereni, che era già allora un sionista che mescolava la poesia del sogno del ritorno alla casa antica degli ebrei agli ideali socialisti. Enzo catturò l'anima di Ada e la portò con sé verso gli studi storico filosofici, ma Ada già desiderava imparare cose più pratiche, più effettive: la chimica era la sua materia preferita, e le dette grande soddisfazione, più avanti, poter riprendere gli studi nella direzione da lei prescelta. La coppia si sposò a Roma e presto nacque Hana, la prima figlia.

Enzo Sereni, sionista e partigiano della Brigata Ebraica

Nel luglio 1927, con la bambina piccolissima, Enzo e Anna cominciarono un'avventura entusiasmante e terribile, quella del ritorno in Israele, la cui ricostruzione doveva passare attraverso un'autentica mutazione antropologica che prevedeva il farsi contadino e operaio da una parte, e intellettuale e studioso dall'altra, secondo la tradizionale visione dell'idealismo marxista. Nel congresso sionista di Livorno Enzo aveva detto: «Non ci sarà riscatto per il nostro popolo sino a quando saremo noi stessi a tornare a Eretz Israel per costruirla anche manualmente; il nostro popolo non avrà diritto alla pace fra gli altri popoli finché non si sarà creata una normale struttura proletaria e contadina».

Enzo era sostenuto da una famiglia sionista e antifascista (anche il fratello Emilio che poi diventò un dirigente del Pci a quel tempo lo era); Ada costruiva da sola, nell'amore, nell'abnegazione personale, la sua nuova inusitata identità. Così, sistemati nel paesino di Rehovot, Ada passò il periodo più difficile della sua vita: Enzo andava nel “pardes”, il campo orlato di palme e eucalipti a piantare, irrigare, potare aranci; e lei restava in una casa senza acqua corrente, con la toilette fuori di casa, la bambina piccola. La decisione di passare a vivere in un kibbutz «dove almeno ci saranno i giardini» fu di Ada. Così la famiglia Sereni fondò con un piccolo gruppo di compagni il kibbutz Givat Brenner.

Ai genitori che non avrebbero mai capito in che cosa consisteva la nuova durissima esperienza collettiva, Ada scrisse che avevano comprato una bella fattoria: ma i compagni, i «haverim» dormivano e vivevano sotto le tende, salvo i bambini (nacque nel frattempo anche un'altra piccola Sereni, Hagar) cui i genitori costruirono una capanna col pavimento di terra battuta. «La gioia era stata grande per tutti – raccontava Ada parlando del passaggio al suo kibbutz, Givat Brenner – per l'arabo che aveva venduto un pezzo di terra arida e incolta per l'e norme somma di diecimila sterline [...] per noi 28 giovani pieni di sogni e di entusiasmo per la nuova società che avremmo creata e voluta giusta, lontano dalla ricchezza che corrompe, a contatto con la natura».

Il kibbutz Givat Brenner con le tende e gli alloggi per i bambini in costruzione, 1934 circa

La vita fu durissima anche se la coppia fioriva di idealismo e capacità personali: Ada divenne direttrice della fabbrica Rimon (Melograna) di succhi e conserve; la fama di Enzo si diffuse, egli divenne un leader del movimento kibbutzistico e socialista famoso in tutto l'Yishuv da cui sarebbe nata Israele. Nel kibbutz Givat Brenner presto vi fu una biblioteca, e i rapporti con i villaggi arabi erano in origine di lavoro e di pace. Ma nel 1929 il kibbutz diventò invece, sovente attaccato concentricamente da un rifiuto arabo che si faceva sempre più aspro, un luogo assediato e pericoloso.

Enzo e Ada resistettero insieme agli altri alla vita tanto difficile, mentre nel ‘31 nasceva il terzo figlio, Daniel, che tragicamente sarebbe stato falciato a una parata aerea nel 1954; nel 1933 Enzo fu scelto come inviato (shaliach) del suo movimento socialista proprio nella Germania del potere hitleriano aperta sorto.
Più tardi, la famiglia fu spostata a New York, dove Ada divenne la organizzatrice di una autentica comune di educatori (tutti accompagnati dalla famiglie, tutti nella stessa grande casa) di giovani pionieri. Ordine, garbo, fantasia e puntiglio, anche talvolta in polemica con il temperamento nervoso e appassionato del marito, così tutti ricordano le caratteristiche di Ada.

Nel 1938, dopo le Leggi Razziali, al kibbutz giunse un gruppo di ebrei dall'Italia. Il fiato dell'Olocausto si faceva affannoso su Israele, la tragedia cominciava ad essere nota. Nel 1944 si formò la Brigata Ebraica che combatté in Europa comandata da ufficiali ebrei.

L'Hagana e il Palmach, le due formazioni militari dell'Yishuv, decisero di lanciare alcuni uomini dietro le linee tedesche per prendere contatto con gli ebrei e incitarli a combattere. Enzo Sereni, la cui fama di uomo indispensabile, integro, coraggioso, era ormai un dato di fatto, si offrì di paracadutarsi. Già erano cadute fucilate dai nazisti dopo essersi infiltrate in Europa due giovanissime e oggi mitiche figure, Anna Senesh e Aviva Reich.

Ada ricorda che «quella fu forse l'unica volta in cui dissi a Enzo di non perseguire una sua scelta. Fu irremovibile». Si lanciò sotto mentite spoglie («Samuel Barda») in divisa inglese nella notte fra il 14 e il 15 maggio del 1944 e se ne conosce la tragica sorte da qual che testimonianza personale e alcune carte: catturato, fu portato come prigioniero a Dachau, e poi fu fucilato.

Quando il suo adorato sparisce nel nulla, Ada si arma, oltre che della consueta energia, di un solitario e leonino senso di avventura, lascia tutto e parte alla ricerca di Enzo, convinta che l'incredibile forza della personalità del marito debba aver lasciato tracce indelebili in chiunque abbia avuto la ventura di incontrarlo. E di fatto, troverà sulla sua strada molti prigionieri dei tedeschi scampati che raccontano di un gentiluomo italiano venuto dalla Palestina che fino all'ultimo aveva donato il suo cibo e la sua sapienza con generosità a quanti incontrava.

Ada in Italia viene incaricata, come condizione per proseguire la sua permanenza lontano dal kibbutz, di una sua missione personale: organizzare l'immigrazione clandestina verso le spiagge della Palestina per l'Agenzia Ebraica, in barba alla leggi britanniche che proibiscono agli ebrei di immigrare, secondo il Libro Bianco concepito dall'Inghilterra per sedare lo scontento arabo.

Sono leggi che si dimostrano crudeli oltre misura, dato che gli ebrei che erano riusciti a sopravvivere ai campi di sterminio non avevano altro obiettivo al mondo che quello di approdare a una casa che fosse la loro per sempre, da cui nessuno potesse deportarli per bruciarli vivi. Gli inglesi abbordavano e bloccavano le navi cariche di migliaia di scampati ad Auschwitz, compresi vecchi e bambini, spesso in pessime condizioni di salute, prima che toccassero Haifa o Jaffa, e respingevano gli ebrei verso l'Europa; ci furono affondamenti, morti, feriti, decine di episodi tragici insanguinarono le acque del Mediterraneo.




È famosa la vicenda dell'Exodus, (da cui il famoso film con Paul Newman e Eva Marie Saint in cui Ada è rappresentata) in cui la nave, carica fino allo stremo, fu respinta due volte: ripartita dalla Francia (proveniva dagli Usa) solo grazie a un lungo sciopero della fame fu al suo arrivo in Israele rispedita in alto mare con un autentico assalto militare britannico, con i suoi 4.500 profughi. Il compito di Ada, era innanzitutto acquistare clandestinamente le navi, che variavano dai pescherecci a grandi battelli che potessero contenere, stipati, migliaia di passeggeri; organizzare l'afflusso dei profughi e curare che esse potessero salpare, in genere nottetempo, cariche del necessario (leggi la storia dei ragazzi di Salvino).

Ada fu di un'abilità e di un'energia eroica, finì anche in carcere, percorse la penisola con mezzi di fortuna e di nascosto incontrando mediatori marittimi, capi del Mossad e dell'immigrazione, soffrì con i profughi attese, rinunce, delusioni, gioì di immense vittorie morali, riuscì a risolvere con le autorità italiane situazioni che apparivano irrisolvibili, e trovò, come racconta nel suo libro I clandestini del mare edito da Mursia, una sostanziale simpatia per gli scampati da Auschwitz.

A La Spezia nel febbraio del ‘46 la nave Fede fu prima fermata dai carabinieri in assetto di guerra cui erano state fornite false informazioni sui passeggeri a scopo di boicottaggio. Quando, scesi dalla nave con l'intervento di Ada i mille passeggeri mostrarono tutti quanti il numero tatuato sul braccio sotto le armi puntate, i carabinieri italiani girarono le armi per eventualmente difendere la nave da attacchi di male intenzionati, e lasciarla partire.

Nel ‘47 Ada decise di restare ancora in Italia come capo dell'organizzazione per l'assistenza che seguitava ad avviare i profughi in Israele. Si calcola che ne abbia messi sulle sue navi circa 28mila. Più avanti, tornata in Israele, le sue attività di aiuto alla popolazione civile, e in particolare a quella palestinese di Gaza dove per incarico del governo cercò di organizzare servizi dopo il 1967, non si fermarono mai. Ma il suo compito e il significato che Ada stessa gli attribuiva si compendiano nella conclusione del suo libro: «Dalla partenza del piccolo Dallin (una imbarcazione ndr.), nell'agosto del 1945 al maggio del 1948, circa 75mila persone erano partite illegalmente dall'Europa e circa 25mila dall'Italia. La notte del 14 maggio (1948 ndr.) partì dal «campo climatico» di Formia l'ultima nave di quella flotta senza bandiera che per tre anni aveva solcato le acque del Mediterraneo.

Partì nel modo consueto, ma i libri di bordo non vennero nascosti, né venne cambiato il nome della nave, perché in quel medesimo giorno un'assemblea memorabile di leader israeliani aveva proclamato la ricostituzione dello Stato d'Israele». Certo Ada, come mi disse durante il nostro incontro, si struggeva nel pensare alla gioia che questo epocale evento avrebbe dato anche ad Enzo.

Fiamma Nirenstein



Comunisti italiani e sionismo

Palmiro Togliatti ad un convegno nel 1960


La deflagrazione tra Israele e il Partito comunista italiano avvenne tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno del 1967. A fare da detonatore per l’esplosione, fu la «guerra dei Sei giorni» con cui lo Stato ebraico reagì ad una minaccia di distruzione e sconfisse il fronte arabo, che rappresentava una popolazione venticinque volte superiore a quella israeliana. Già la sera del 28 maggio - pochi giorni prima del conflitto - si tenne a Roma, al portico d’Ottavia, una veglia per Israele nel corso della quale l’architetto Bruno Zevi, il quale fino a pochi anni prima si definiva «azionista-comunista», disse: «Io non desidero polemizzare con i comunisti più del dovuto, perché noi tutti sappiamo che i comunisti sono stati in molte occasioni a fianco della minoranza ebraica italiana, perché sappiamo che ogni volta che, nel passato, questo quartiere ha subito offese antisemite, i comunisti sono stati tra i primi a venire qui e a portarci l’aiuto della loro solidarietà». Poi, con un crescendo di voce, («senza rancore, senza astio ma con chiarezza», precisò), puntando l’indice verso le Botteghe Oscure, aggiunse: visto che, come dite, «c’è il pericolo che gli Stati Uniti sostengano Israele, perché, per evitare che tale pericolo si concretizzi, non premete sull’Unione Sovietica affinché sia l’Unione Sovietica ad aiutare Israele?» Domanda fintamente ingenua, dal momento che Zevi quella sera sa benissimo (e lo dice apertamente) che «l’Unione Sovietica, oltre a non aiutare Israele, istiga e arma i Paesi arabi che vogliono distruggerlo». E racconta di «molti comunisti che si trovano in uno stato drammatico di imbarazzo». A quel punto alcuni militanti del Pci chiedono di poter prendere la parola. Ma l’intellettuale ex azionista Aldo Garosci pone la condizione che essi strappino in pubblico la tessera del loro partito.

Alberto Jacoviello

Furono, quelli, giorni effettivamente di grande imbarazzo per quei pochi, pochissimi, intellettuali e dirigenti del Pci che, pur tra dubbi e cautele, vollero schierarsi dalla parte di Israele. Il direttore del quotidiano filocomunista «Paese Sera», Fausto Coen, fu costretto a dimettersi dopo che il capo della sezione esteri dell’«Unità», Alberto Jacoviello, era andato a rimproverare il «giornale fratello» per la linea eccessivamente benevola nei confronti di Israele e, in un’esplosione d’ira, aveva distrutto le matrici pronte per le rotative. Jacoviello godeva del pieno sostegno dell’allora direttore dell’«Unità» Gian Carlo Pajetta, che si era schierato senza esitazioni dalla parte dell’egiziano Nasser. E Pajetta divenne bersaglio di lettere oltremodo polemiche da parte di ebrei. Scrisse Mario Pontecorvo: «Io non credo che lei nell’animo possa veramente appoggiare Nasser che, è noto, distribuisce il Mein Kampf tra i suoi ufficiali». Vittorio Da Rodi fu ancora più diretto: tra i soldati di Israele, «che tu oggi accusi di aggressione, vi sono coloro che combatterono in Italia per la liberazione della tua e mia patria dal fascismo, prima ancora che tu, Pajetta, potessi fare il partigiano». Gli autori di queste e moltissime altre missive, però, più che gli esponenti del Pci prendevano a bersaglio gli «ebrei comunisti», accusati di essere simili ai loro correligionari de «La Nostra Bandiera», il foglio israelita che negli anni Trenta si era schierato con il regime fascista. Bersaglio privilegiato di questa offensiva fu il senatore comunista (ebreo) Umberto Terracini, definito dalla rivista «Shalom» «associato alla campagna antisemita dei suoi compagni di Polonia». Altro bersaglio fu Franco Fortini (ebreo solo da parte di padre, che nel 1940 aveva lasciato il cognome originario, Lattes, per prendere quello della madre) per aver dato alle stampe un libro, I cani del Sinai (De Donato), nel quale si accusavano le «dirigenze politiche israeliane» di essere «compartecipi» degli «interessi economico-militari americani e, subordinatamente, inglesi» in Medio Oriente. Ma l’uomo dello scandalo, se così si può dire, fu il senatore comunista Emilio Sereni, fratello di Enzo, grande esponente del sionismo italiano morto a Dachau nel 1944. Emilio (Mimmo) Sereni disapprovò «certe affermazioni» dei leader arabi, ma esortò a non dimenticare «la responsabilità che Israele porta per aver discriminato e cacciato un milione e trecentomila arabi e per aver partecipato all’aggressione del 1956, quando sarebbe stata una scelta lungimirante la solidarietà con Nasser che nazionalizzava la compagnia di Suez». Anche a lui giunse una pioggia di lettere da parte di correligionari. Dario Navarra: «Vede senatore, certe volte il nome che si porta può essere un peso, soprattutto se è un nome bello, legato ad una tradizione, ad un’idea; forse è una delle tragedie della civiltà moderna quando i figli rinnegano i padri ed i fratelli si tradiscono a vicenda». Renato Salmoni (reduce da Buchenwald, tiene a precisare di non essere «un accanito sionista»): «Trovo che per una questione di opportunità e diciamo di buon gusto, lei farebbe meglio a tacere». Suo cugino, il succitato Mario Pontecorvo, accusò Sereni di «servilismo fazioso» nei confronti del Pci e si spinse a chiedere che venisse «espulso da ogni forma di manifestazione ebraica».

Gamal Abdel Nasser


Questo genere di persone, scriveva ancora «Shalom», «devono solamente decidere se, in quanto uomini e in quanto ebrei, debbano appoggiare un gruppo ebraico minacciato di sterminio, oppure se valga per loro la pena, come comunisti, di accettare il sacrificio dei loro fratelli sull’altare dell’ideologia». E quando Arturo Schwarz, uno di questi israeliti difensori delle ragioni degli arabi, aveva avuto l’auto sfregiata da una svastica e da una scritta inneggiante ai palestinesi, «Shalom» aveva dedicato all’accaduto un articolo irridente fin dal titolo (Le piace Schwarz?) in cui si scriveva: «Forse qualcuno lo aveva preso per un ebreo vero».

Arturo Schwarz

A questi tormenti del 1967 sono dedicate le pagine centrali del libro di un brillante allievo di Salvatore Lupo, Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra, pubblicato da Donzelli. Correttamente, però, il volume fa risalire la prima rottura tra ebrei e mondo comunista non già al 1967, bensì al 1952. Ed era stata una rottura dolorosa, dal momento che fino ad allora il rapporto tra socialisti, comunisti ed ebrei era stato molto stretto. Il 7 gennaio del 1946, quando partì da Vado Ligure la nave «Enzo Sereni» piena di israeliti che emigravano in Palestina, c’era un gruppo di ex partigiani rossi a vigilare sulle operazioni di imbarco. E nell’ottobre dello stesso 1946, dopo l’attentato dell’Irgun (organizzazione militare della destra sionista) all’ambasciata britannica di Roma, carabinieri e polizia sospettarono - è scritto in rapporti di due anni dopo - il coinvolgimento di persone del Pci «che mirerebbero a far tramontare definitivamente l’influenza inglese in quella regione». Anche il Partito socialista italiano, in particolare Pietro Nenni, fu in prima linea nel difendere le ragioni di Israele e a esaltare i kibbutz come un modello di socialismo. Molti ragazzi di sinistra, anche non ebrei, decisero di trascorrere un periodo in Israele a lavorare in qualche kibbutz. Il futuro leader di Potere operaio Toni Negri, all’epoca giovane socialista, scelse («inseguendo una gentile fanciulla») di trascorrere un anno in un kibbutz del Mapam e lì in Israele (ne ha scritto in Pipe-line. Lettere da Rebibbia, edito da Einaudi nel 1983 e riproposto da DeriveApprodi nel 2009) gli parve di poter finalmente vivere «pratiche tanto elementari, quanto radicali di comunismo»: «C’era, mordeva il reale quest’utopia; era concreta», fu la sua impressione. Socialisti e comunisti sostennero sui loro giornali l’emigrazione ebraica (è stato ritrovato un manifesto del Pci raffigurante una nave che fa rotta verso la Palestina, in cui si invitano militanti e simpatizzanti a raccogliere fondi a favore degli ebrei) e, nel 1948, dopo la nascita di Israele, Umberto Terracini ne chiese immediatamente - a nome del Pci - il riconoscimento.

Una fabbrica di confettura d'arance attiva nei pressi di Tel Aviv nel 1940

Nel mondo ebraico era nato nel 1945, su iniziativa di Joel Barromi e, poi, Marcello Savaldi, il Centro giovanile italiano del movimento sionista pionieristico «Hechalutz», che non nascondeva le proprie simpatie per il comunismo. Nella mozione di un congresso di «Hechalutz» (1947), l’organizzazione dichiarava di unirsi «ai lavoratori italiani nello sdegno per l’eccidio del Primo maggio a Portella della Ginestra, riaffermando in questa occasione la solidarietà con i partiti progressisti d’Italia». In un articolo del loro giornale si poteva leggere: «Disgraziatamente per noi, impariamo a nostre spese che l’ebraismo della diaspora non conosce proletariato». E ancora: «Mancano quei tipi quadrati di operai delle grandi officine, minatori, muratori, che nascono con l’istinto della lotta di classe e della solidarietà operaia; gli operai dalle schiene piegate che lavorano e studiano, vogliono conoscere e si ribellano al mondo che li fa lavorare, non li abbiamo mai visti tra noi ebrei; l’ebreo ricco che vende tappeti in un negozio di lusso e l’ebreo povero che vende cartoline su una bancarella non sono così lontani». Di passo in passo «Hechalutz» giunse ad auspicare «che il nostro Primo maggio non si limiti a richiedere l’unità dei lavoratori ebrei, ma miri ad una unità sempre più stretta coi lavoratori arabi».

Rudolf Slansky durante il processo

Ma venne, come dicevamo, il 1952. In molti paesi dell’Est europeo, ricostruisce Di Figlia, si tennero «una serie di processi sommari a imputati ebrei, tra cui spiccò quello a Rudolf Slansky, ex leader del Partito comunista cecoslovacco, impiccato lo stesso anno». Poi fu il 1953, quando a Mosca furono arrestati i «camici bianchi», medici ebrei accusati di aver complottato contro Stalin, e solo la morte del dittatore evitò l’avvio di una persecuzione antisemita per la quale si stava creando un clima adatto. In quegli stessi mesi un misterioso attentato all’ambasciata sovietica a Tel Aviv provocò la momentanea rottura delle relazioni diplomatiche tra Urss e Israele. In Italia socialisti e comunisti si schierarono senza esitazione dalla parte dell’Urss: «Il processo contro la banda Slansky», scrisse «l’Unità», «ha dimostrato come i dirigenti dello Stato d’Israele avessero posto il loro Stato e le loro rappresentanze diplomatiche all’estero, in particolare in Europa orientale, al servizio dei servizi di spionaggio americani». Ma qualche ebreo, come Amos Luzzatto, che nel dopoguerra si era iscritto al Pci, cominciò ad avere dei dubbi e, pur restando a sinistra, lasciò il partito.

Giovani pionieri ebrei progettano l'insediamento del kibbutz a Dovrat in Galilea nel 1946

Non così Guido Valabrega, un israelita di Torino che nel 1950 si era trasferito in Israele in un kibbutz di Ruchama e da lì scriveva ai suoi familiari che la rottura dei rapporti diplomatici tra Urss e Israele era tutta da imputare al governo di Tel Aviv, «anticomunista quale non lo è nemmeno De Gasperi» (nell’agosto del ’53 Valabrega fu espulso dal kibbutz e raccontò poi di esserne uscito «cantando l’ Internazionale e l’inno sovietico»). E neanche «Hechalutz», che accusò l’ebraismo italiano di «strumentalizzare i processi d’oltrecortina in chiave anticomunista». Quando poi, dopo la morte di Stalin, i «camici bianchi» furono prosciolti, «Hechalutz» ironizzò: «Era così comodo poter puntare sull’Idra sovietica all’attacco, la campagna antisemita era così utile agli stessi ebrei occidentali per la loro politica che oggi, sotto la patina di una sostenuta soddisfazione, si sente il rimpianto per un’occasione che va in fumo». E tutto proseguì come prima. Nel 1955, in occasione dell’anniversario della rivoluzione d’Ottobre, il giornale di «Hechalutz» pubblicò un appello inneggiante alla patria del socialismo che si concludeva con queste parole: «W l’Urss! W lo Stato di Israele! W l’amicizia eterna tra Israele e l’Urss».


Poi però fu il 1956, con la guerra per il canale di Suez: l’Urss (impegnata a reprimere la rivoluzione ungherese) si schierò con decisione dalla parte di Nasser contro Israele. Il Pci prese le stesse posizioni. Anche se, ha notato Marco Paganoni in un bel libro, Dimenticare Amalek (La Giuntina), «l’Unità» all’epoca difendeva ancora lo Stato ebraico «scindendo recisamente le sue responsabilità da quelle di Francia e Gran Bretagna». Stavolta a sinistra si distinse il Partito repubblicano. Ugo La Malfa criticò l’intervento militare di Gran Bretagna e Francia, ma difese Israele contro Nasser. E in Parlamento l’ex ministro repubblicano della Difesa, Randolfo Pacciardi, puntò l’indice contro i comunisti: «Là, in Israele, avete un popolo che si è svenato per la sua libertà. In Egitto avete un dittatore che voleva consolidare la sua potenza proprio con le armi dell’Unione Sovietica. È da ieri che quel dittatore andava predicando lo sterminio del popolo ebraico. Ma anche il popolo ebraico, se non siete diventati persino razzisti, ha diritto alla vita come tutti gli altri».
Tra i comunisti la simpatia per Israele cominciò ad attenuarsi. Ha notato sempre Paganoni che già nel febbraio del ’57 sull’«Unità» si cominciò a parlare di «mire espansionistiche» dello Stato israeliano. E, all’epoca del processo contro Adolf Eichmann (1961), «l’Unità» scelse di mettere in risalto le connivenze con il nazismo degli imprenditori tedeschi (Dietro i Lager di Adolf Eichmann stavano i trust dei Krupp e dei Farben, fu il titolo del 22 marzo 1961; L’eccidio in massa degli ebrei fu anche un affare economico, proseguiva l’8 aprile); stabilì poi un paragone tra l’operato di Eichmann e quello delle potenze occidentali in Africa e accusò il cancelliere tedesco dell’epoca, Konrad Adenauer, di aver favorito il reinserimento nei ranghi istituzionali di molti ex nazisti.


Le forze armate israeliane in azione nel deserto durante la guerra dei Sei giorni

Così, quando si giunse alla «guerra dei Sei giorni», a difendere - da sinistra - Israele (repubblicani a parte) restò quasi solo il socialista Pietro Nenni, che si spinse ad accusare due importanti leader democristiani, Amintore Fanfani e Aldo Moro, di aver assunto, per via delle loro cautele in merito a ragioni e torti di quel conflitto, «posizioni tecniciste» che rispondevano a «un certo vuoto morale». Sull’«Avanti!» un esponente dell’ebraismo romano, Jacob Schwartz, lodò pubblicamente la «coerenza» mostrata da Nenni. Dalle colonne dell’«Unità» un leader allora in ascesa, Enrico Berlinguer, accusò Nenni di essere un epigono di «quel vecchio filone di interventismo sedicente di sinistra che ha finito sempre per colludere con quello reazionario». In quegli stessi giorni si consumò una divisione nel settimanale «L’Espresso», dove il direttore Eugenio Scalfari - pur con una grande attenzione all’uso delle parole - decise di prendere le distanze da Israele provocando una crisi con alcuni importanti collaboratori, tra cui Bruno Zevi e Leo Valiani. «Se gli anticomunisti sbagliano e sbagliano gli americani, è nostro obbligo dirlo con tanta maggiore fermezza in quanto si tratta non di errori degli avversari ma di errori nostri», scrisse Scalfari il 16 giugno del 1967 in una lettera personale a Valiani.

Stesso genere di argomentazione - ma a parti invertite - fu quello usato da Pier Paolo Pasolini che in una lettera su «Nuovi Argomenti» scrisse: «L’unico modo di essere veracemente amici dei popoli arabi in questo momento non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile di perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e disperata? Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?» Ma Pasolini sbagliava previsione. Quelli che lui definiva «intellettuali marxisti» - ad eccezione dei radicali ricostituiti sotto la guida di Marco Pannella - si schierarono pressoché all’unanimità su posizioni simili a quelle di Scalfari. Persino ebrei comunisti (come il già citato Valabrega e, a Roma, il consigliere comunale Piero Della Seta) sostennero, racconta Di Figlia, la validità della posizione filoaraba dell’Urss e di altri Paesi socialisti, affermando che Israele «aveva attaccato per risolvere una crisi economica ormai evidente». Tra le poche eccezioni, quelle pur sorvegliatissime del giurista Luciano Ascoli e di Umberto Terracini, entrambi convocati «privatamente» dai vertici del Pci per rendere conto delle loro posizioni.

Pier Paolo Pasolini mentre intervista alcuni abitanti dei kibbutz israeliani

Opportunamente Di Figlia tiene a precisare che è improprio ricondurre per intero al Pci questo contenzioso. Così come non si può «adottare l'unico canone interpretativo della cieca obbedienza a Mosca, abbastanza valido per gli anni Cinquanta, ma non per il periodo successivo». Il Pci «fu anti-israeliano mentre era impegnato in un farraginoso ma progressivo allontanamento dall'Urss, e molti gruppi nati dopo il '68 che espressero giudizi durissimi verso Israele, osteggiavano apertamente il Pci e il modello sovietico». La scelta di Israele di mantenere i territori occupati nel 1967 fu avversata anche da molti esponenti del Partito socialista. A questo proposito, scrive Di Figlia, «è rilevantissimo il caso del Psi negli anni della segreteria di Bettino Craxi: questi non permise il prevalere di una corrente massimalista, scommise tutto su una svolta socialdemocratica e finalmente libera da ogni retaggio marxista; nello stesso periodo il Psi accentuò la vocazione filopalestinese». Non ci fu, dunque, «un'automatica correlazione tra critica a Israele e ortodossia comunista, né tra quest'ultima e l'antisemitismo di sinistra, che, nato da posizioni antisioniste, non va letto come il cangiante lascito di quello nazifascista, di quello sovietico, o dell'antigiudaismo cattolico».



Ciò detto, dopo il 1967 i rapporti tra Israele e sinistra italiana - eccezion fatta per Pietro Nenni, Ugo La Malfa, dopo di lui Giovanni Spadolini, Giorgio La Malfa e l'intero gruppo dirigente repubblicano, intellettuali d'area inclusi - andarono sempre più peggiorando. Le linee dell'esposizione sono quelle già tracciate da Maurizio Molinari in La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993) edito da Corbaccio. La sinistra quasi per intero sposò la causa palestinese. Quella extraparlamentare, all'epoca influente, appoggiò i fedayn più radicali. Giorgio Israel ha così raccontato una cena estiva con un gruppo di amici: «A un certo punto, tra una chiacchiera e l'altra, un "compagno" toscano prorompe in un'invettiva violentissima contro gli ebrei: capitalisti, sanguisughe, imperialisti, assassini del proletariato e chi più ne ha più ne metta. Reagisco indignato, definendo il suo linguaggio come fascista e razzista, cerco di trovare ampia solidarietà e ... sorpresa, mi ritrovo nell'isolamento più assoluto. Nessuno mi difende, nemmeno i più cari amici». Ai tempi dell'attentato di Settembre nero all'Olimpiade di Monaco (1972) la solidarietà per gli atleti israeliani trucidati fu assai trattenuta. Stefano Jesurum, all'epoca militante del Movimento studentesco, riferisce nel libro Israele nonostante tutto (Longanesi) di essere corso quel giorno dalla sua «famiglia» politica, ma di essere stato gelato con queste parole: «Su questi temi voi compagni ebrei è meglio che stiate zitti». Nel volgere di pochi anni non valse più, mai, neanche l'evidenza dei fatti. Israele aveva sempre torto. Sempre. Nel 1973, in occasione della guerra dello Yom Kippur, dopo l'attacco dell'Egitto «l'Unità» sostenne che il «vero aggressore» era Israele per il fatto che non aveva ancora «restituito i territori occupati nel '67». Anche se, con il passare del tempo, i dirigenti del Pci - in privato, però - cominciarono a prendere le distanze dai regimi arabi. In un libro di memorie (Con Arafat in Palestina. La sinistra italiana e la questione mediorientale, Editori Riuniti) l'allora responsabile della commissione esteri del Pci, Antonio Rubbi, ha raccontato che, negli anni Ottanta, dopo un viaggio in Libano, Siria e Iraq, Giancarlo Pajetta gli confidò di aver incontrato «una massa di imbroglioni e ipocriti». «Il Pajetta che ancora all'inizio degli anni Settanta parlava di "nazione araba" e di "socialismo arabo"», fu l'impressione di Rubbi, «semplicemente non esisteva più».

Certo, qualcosa iniziava a cambiare. Giorgina Arian Levi, nipote acquisita di Palmiro Togliatti (in quanto figlia di una sorella di Rita Montagnana, prima moglie del segretario del Pci) passa da posizioni decisamente filosovietiche e anti-israeliane alla denuncia, nel 1977, della propaganda contro Israele in Unione Sovietica, propaganda che, scrive, «sorprende per l'assenza di concrete argomentazioni politiche e per lo sconfinamento dall'antisionismo all'antisemitismo». «La sedimentazione antisemita che risale alla Russia zarista», prosegue, «non è del tutto morta, anche sessant'anni dopo la gloriosa rivoluzione d'Ottobre».

Bruno Zevi, ex militante azionista, che attaccò il Pci in nome della difesa d’Israele

Discorso a parte merita poi un'altra ribellione allo spirito dei tempi, alla quale Di Figlia dedica pagine molto interessanti. È quella del Partito radicale di Pannella. E di Gianfranco Spadaccia che, in un congresso, polemizza apertamente con quanti hanno la tentazione di sposare le iniziative filopalestinesi dell'ultrasinistra: «Vogliamo costruire una politica che abbia come bussola di orientamento... i diritti umani, la democrazia; basta battersi romanticamente per le lotte di liberazione che poi producono oppressioni più atroci». I radicali, osserva Di Figlia «non furono i neocon italiani, ma furono i primi a difendere le ragioni israeliane usando un tassello centrale della proposta neocon, cioè quello dei diritti umani». Su questa base, «il sostegno a Israele divenne un tratto distintivo del Pr negli anni di Pannella molto più di quanto non lo fosse stato in quelli di Mario Pannunzio». Bruno Zevi, in dissenso con la politica di Craxi tutta a favore di Arafat, prendeva la tessera del Partito radicale, di cui sarebbe divenuto presidente onorario. Ma il clima generale in Italia restava quello di cui si è detto prima. Per la sinistra, quasi tutta, gli israeliani dovevano sempre essere criticati e agli ebrei toccava il bizzarro (bizzarro?) compito di recitare in pubblico il «mea culpa» per quel che si decideva a Gerusalemme e a Tel Aviv.

Il giorno dell'attentato alla Sinagoga di Roma in cui fu assassinato Stefano Gay Tachè, di due anni

Nel 1982, quando Israele invade il Libano, scatta immediata e unanime la condanna da parte dell'intera sinistra. Un gruppo nutrito di ebrei italiani si affretta a sottoscrivere un manifesto, Perché Israele si ritiri, che reca in testa la firma di Primo Levi. Dopo il massacro di palestinesi a Sabra e Chatila (da parte dei falangisti libanesi che agiscono indisturbati per l'omesso controllo degli israeliani), i toni nei confronti di Israele si fanno più violenti. Per una strana (strana?) proprietà transitiva tali «critiche» vengono estese a tutti gli ebrei. Un corteo sindacale depone una bara sui gradini del Tempio di Roma. Poco tempo dopo, un attentato alla stessa sinagoga della capitale provoca la morte di un bambino: Stefano Taché. Questo orribile delitto provoca un soprassalto: da quel momento cambia qualcosa di importante, di molto importante. Viene allo scoperto un sentimento - fino ad allora quasi nascosto - di «appartenenza» orgogliosa al popolo ebraico: Natalia Ginzburg, Furio Colombo, Anna Rossi Doria, Fiamma Nirenstein (che pure aveva firmato l'appello di cui si è appena detto, criticato da suo padre, Alberto Nirenstein), Mario Pirani, Anna Foa, Janiki Cingoli, Clara Sereni, Gabriele Eschenazi rifiutano una volta per tutte - quanto meno chi fino a poco prima si era prestato - di recitare la parte degli «ebrei buoni» chiamati sul palco quando c'è da accusare Gerusalemme.

Un ruolo fondamentale nell'accompagnare questa presa di coscienza lo svolge un intellettuale torinese, Angelo Pezzana (che stranamente nel libro di Matteo Di Figlia non è neanche citato). Ancor più importante, nel favorire questo risveglio di coscienza tra gli ebrei di sinistra, la rivista «Shalom» sotto la direzione di Luciano Tas. Dalle colonne di «Repubblica» Rosellina Balbi, con un coraggioso articolo, incita gli ebrei di sinistra a non sentirsi più in dovere di «discolparsi» per quel che ha fatto Israele. Piero Fassino imprime al Pci una svolta nella politica estera che implica l'eliminazione del pregiudizio, una maggiore attenzione (di volta in volta) alle ragioni di Israele e ai torti del modo arabo: «Non si è posta sufficientemente in rilievo la centralità della questione della democrazia e dei diritti umani nei paesi mediorientali», riconosce, echeggiando le antiche posizioni del Partito radicale, in un'intervista ad Antonio Carioti che significativamente compare su «La Voce Repubblicana».

Il resto è storia recente, ben ripercorsa nelle pagine conclusive del libro di Matteo Di Figlia. Storia di anni in cui si è continuato, da sinistra, a criticare questo o quell'atto del governo israeliano, pur con toni duri, ma con una minore indulgenza a quel genere di antisionismo che per decenni aveva coperto vere e proprie forme di antisemitismo. Anche se il tic di chiedere ai «compagni ebrei» di essere in prima fila quando c'è da attaccare Israele è ben lungi dall'essere scomparso del tutto.

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Titolo originale: "E gli ebrei rifiutarono il ricatto antisionista. La svolta con l’attentato alla sinagoga di Roma"
di Paolo Mieli
15 maggio 2012