lunedì 16 aprile 2012

Sono un profugo (ebreo)




di Danny Ayalon


In qualità di membro in carica di un governo democratico, può sembrare strano che io mi definisca “un profugo”. Eppure mio padre, i suoi genitori e tutta la sua famiglia fanno parte di quel milione circa di ebrei che vennero espulsi o costretti ad abbandonare le terre arabe. Mio padre e la sua famiglia erano algerini, membri di una comunità ebraica vecchia di migliaia di anni le cui origini risalivano a ben prima della conquista araba del nord Africa ed della stessa nascita dell’Islam. Dopo aver ottenuto l’indipendenza, l’Algeria accordò la cittadinanza soltanto ai cittadini musulmani, cacciando via l’autoctona comunità ebraica e con essa quella parte della mia famiglia.
Sebbene siano moltissime le persone che fanno costantemente riferimento ai profughi arabo o palestinesi, ben pochi sono coloro che almeno sanno dell’esistenza dei profughi ebrei dalle terre arabe. Mentre gli arabi che fuggirono o lasciarono la Palestina Mandataria e Israele ammontano grossomodo a 750.000 persone, i profughi ebrei dalle terre arabe furono circa 900.000. Prima che nel 1948 venisse creato lo stato di Israele, v’era quasi un milione di ebrei nelle terre arabe, là dove oggi essi non arrivano a 5.000 in tutto.
Un’importante differenza fra i due gruppi sta nel fatto che molti arabi palestinesi furono attivamente coinvolti nel conflitto contro Israele lanciato dalle circostanti nazioni arabe, mentre viceversa gli ebrei delle terre arabe avevano vissuto pacificamente per secoli, se non millenni, nei rispettivi paesi di origine, sovente nella condizione sottomessa di “dhimmi”. Inoltre i profughi ebrei, dal momento che erano più urbanizzati e istruiti rispetto ai più rurali palestinesi, avevano accumulato maggiori proprietà e ricchezze, che furono costretti a lasciarsi alle spalle nei loro ex paesi. Esperti economisti hanno stimato che, in cifre odierne, l’ammontare totale dei beni perduti dai profughi ebrei nelle terre arabe, comprese le proprietà comunitarie come scuole, sinagoghe e ospedali, sia quasi il doppio di quello dei beni perduti dai profughi aplestiensi. Non basta. Bisogna anche ricordare che, negli anni ’50, Israele restituì più del 90% dei conti bancari bloccati, delle cassette di sicurezza e di altri averi appartenuti ai profughi palestinesi (mentre nulla del genere è accaduto per i profughi ebrei).

Anche se il numero dei profughi ebrei e dei loro beni è maggiore di quello dei palestinesi, la comunità internazionale sembra essere a conoscenza solo ed esclusivamente della condizione di questi ultimi.
Vi sono numerose importanti organizzazioni internazionali dedicate ai profughi palestinesi. Esiste una Conferenza che viene indetta ogni anno dalle Nazioni Unite, ed esiste un’agenzia-profughi che è stata appositamente istituita per i profughi palestinese: mentre per tutti gli altri profughi del mondo esiste un’unica agenzia, l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (UNHCR), i palestinesi sono sotto l’egida di una loro specifica agenzia esclusiva, la United Nations Relief and Works Agency (UNRWA). Il budget per il 2010 dell’UNRWA (per i profughi palestinesi) è pari a circa la metà del budget dell’UNHCR (per tutti gli altri profughi del mondo). Altrettanto impressionante è il fatto che l’UNHCR si vanta di aver trovato “soluzioni durevoli” per “decine di milioni” di profughi dal 1951, anno della sua istituzione; mentre l’UNRWA non si vanta d’aver trovato “soluzioni durevoli” nemmeno per un solo profugo palestinese.
Come non tutto ciò non fosse già abbastanza distorto, si dia un’occhiata alle definizioni e a come esse vengono applicate: normalmente la definizione di “profugo” si applica solamente alla persona che è fuggita e ha cercato rifugio; nel caso dei palestinesi, invece, viene definita “profugo” non solo colui che è fuggito, ma anche tutti i suoi discendenti per sempre all’infinito. Dunque, stando alla definizione con cui l’UNRWA conferisce lo status di profugo, io stesso sarei un profugo.

Ma io non mi considero affatto un profugo. Io sono un fiero cittadino dello stato d’Israele. I profughi ebrei, infatti, hanno trovato in Israele la loro piena espressione nazionale. Allo stesso modo, anche i profughi arabi dovrebbero dare espressione alle loro aspirazioni nazionali in uno stato palestinese (e non in Israele).
Con i negoziati diretti che stanno ricominciando fra Israele e palestinesi, i riflettori torneranno a puntare su questa questione. Il cosiddetto “diritto al ritorno” è una falso giuridico. La risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che sarebbe la fonte giuridica di tale “diritto”, non menziona affatto la parola “diritto”, non è legalmente vincolante e, come tutte le attinenti risoluzioni dell’Onu, usa il termine intenzionalmente ambiguo di “profughi” senz’altri appellativi.
La risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tuttora considerata la principale cornice giuridica per risolvere il conflitto arabo-israeliano, afferma che una composizione di pace globale in Medio Oriente deve necessariamente comprendere “un’equa regolamentazione del problema dei profughi”. Non viene fatta nessuna distinzione fra profughi arabi e profughi ebrei. In effetti, uno dei principali estensori di quella risoluzione, il giudice Arthur Goldberg, all’epoca capo della rappresentanza Usa all’Onu, disse: “La risoluzione pone l’obiettivo di ‘arrivare un’equa regolamentazione del problema dei profughi’. Queste parole si riferiscono ragionevolmente sia ai profughi arabi che ai profughi ebrei”.
Di più. Tutte le conferenze e gli accordi di pace che hanno visto la partecipazione o la firma di Israele e vicini arabi hanno sempre usato il termine “profughi” senza qualificazioni restrittive. Durante le famose trattative di Camp David nel luglio 2000, l’allora presidente Usa Bill Clinton, intercessore e ospite dei negoziati, disse: “Vi dovrà essere una qualche sorta di fondo internazionale istituito per i profughi. Credo che esista un certo interesse, piuttosto interessante, da entrambe le parti, nel fatto che vi sia anche un fondo che indennizzi gli israeliani che furono resi profughi dalla guerra scoppiata subito dopo la nascita dello stato di Israele. Israele è pieno di persone, di ebrei, che vivevano in paesi prevalentemente arabi e che arrivarono in Israele perché erano stato resi profughi nelle loro terre d’origine”.

Nel 2008 il Congresso americano ha approvato la House Resolution 185 che per la prima volta garantisce eguale riconoscimento ai profughi ebrei prescrivendo che d’ora in poi il governo di Washington riconosca che tutte le vittime del conflitto arabo-israeliano devono essere trattate allo stesso modo. Sono fiero del fatto che la Knesset nel febbraio di quest’anno ha approvato una mozione che rende gli indennizzi agli ebrei profughi dai paesi arabi dopo il ‘48 parte integrante di qualunque futuro negoziato. Il disegno di legge israeliano prevede che “lo stato di Israele non firmi, direttamente o per delega, nessun accordo o trattato con un paese o un’autorità su una composizione politica in Medio Oriente senza garantire i diritti dei profughi ebrei dai paesi arabi conformemente al trattato Onu sui rifugiati”.

Prima del 1948 c’erano circa 900.000 ebrei nelle terre arabe, mentre oggi ne rimangono solo poche migliaia. Dove sono lo sdegno internazionale, i convegni, i proclami che invocano giustizia e risarcimenti? La questione dei profughi palestinesi è diventata un’arma politica per bastonare Israele, e la Lega Araba ha ordinato ai suoi stati membri di non accordare la cittadinanza alle loro popolazioni palestinesi. Intanto Israele ha accolto tutti i suoi profughi in fuga: sia dalla Shoà, sia dalle persecuzioni ed espulsioni nelle terre arabe.
Le persone come mio padre, le centinaia di migliaia di persone che arrivarono in Israele e i milioni di israeliani discendenti da quei profughi, hanno diritto al risarcimento. È fondamentale che questa questione torni all’ordine del giorno della comunità internazionale affinché non si debba ancora una volta assistere a un trattamento asimmetrico e distorto per arabi ed ebrei, nel conflitto arabo-israeliano.

(Da: Jerusalem Post, 1.9.10)

Nessun commento: